Il 23 giugno 2016 i cittadini del Regno Unito sono stati chiamati a esprimersi in un referendum consultivo sulla permanenza o meno del proprio paese nell’Unione europea. Sebbene di stretta misura, i risultati della consultazione hanno dato un verdetto chiaro: il 51,9% dei votanti si è espresso per il «leave» (Leave the European Union – «lasciare l’UE») di contro al 48,1% che si è invece espresso per il «remain» (Remain a member of the European Union – «rimanere membro dell’Ue»).
L’esito del referendum non ha prodotto – e non poteva produrre data anche la sua natura consultiva – alcun automatismo. La complicatissima operazione di fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione – la Brexit (Britain exit) – richiede infatti che sia il governo ad avviare le procedure di recesso previste dal Trattato di Lisbona, avanzando una formale richiesta in tal senso al Consiglio europeo. Inoltre, secondo una recente sentenza dell’Alta Corte di Giustizia britannica, emessa il 3 novembre, prima che tali procedure vengano avviate deve essere il Parlamento britannico – attualmente in maggioranza pro-remain – a confermare il voto espresso dai cittadini. Se si considera inoltre che il Trattato di Lisbona stabilisce che le trattative per il recesso possano durare fino a due anni ed essere ulteriormente prorogate qualora entrambe le parti siano d’accordo, è assai difficile pensare che la Brexit sia ormai un fatto compiuto. Per ora, insomma, non esiste alcuna certezza sulle forme che assumerà in futuro il rapporto tra il Regno Unito e l’Unione europea.
Al di là di queste incertezze, è tuttavia fuori di dubbio che il lascito del referendum è estremamente pesante. Sia per l’UE, che ha subito una nuova traumatica battuta d’arresto nel processo di integrazione, con tutti gli effetti di contagio che quasi sicuramente verranno a prodursi in altri paesi. Sia per lo stesso Regno Unito che, fuori dall’Europa, rischia di vedere ridimensionata la propria posizione internazionale e fortemente indebolita, come molti temono, la sua stessa unità interna…
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