Nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016 la Turchia è stata teatro di un tentativo di colpo di Stato organizzato da alcuni reparti delle forze armate contro il presidente della repubblica Recep Tayyip Erdoğan. Seguito in diretta dai grandi network televisivi internazionali e fallito nell’arco di poche ore, il golpe ha messo a nudo di fronte all’opinione pubblica mondiale le difficoltà e le contraddizioni in cui versa ormai da anni il paese. Nello stesso tempo ha dato modo al suo leader di imprimere una svolta decisamente autoritaria agli equilibri complessivi del sistema politico turco. Con effetti e conseguenze tuttora imprevedibili.
I contorni e i dettagli del fallito colpo di Stato non sono stati ancora del tutto chiariti. Sulle sue reali ragioni, i suoi veri mandanti e la sua stessa «sostanza» permangono del resto seri dubbi. Quel che è certo è che oggi la Turchia – membro della Nato dal 1952 e da tre decenni in difficili e forse impossibili trattative per entrare a far parte dell’Unione Europea – appare come un paese in profonda crisi di identità, assai più fragile di quanto la politica «muscolare» di Erdoğan non lasci trasparire. Nel quadro della più ampia crisi che investe l’intero Medio Oriente, questa fragilità aggiunge un elemento di instabilità assai preoccupante per gli equilibri complessivi della regione e, di riflesso, per il resto del mondo.