Il 1° ottobre 2017 si è celebrato in Catalogna un contestatissimo referendum per l’indipendenza della «nazione catalana» dalla Spagna. I risultati della consultazione – che non prevedeva alcun quorum e che i suoi proponenti hanno presentato fin dal principio come «vincolante» – hanno segnato una netta vittoria dei fautori dell’«autodeterminazione», nonostante la vasta e spettacolare azione repressiva messa in campo dal governo di Madrid. Quasi il 92% dei votanti ha infatti risposto affermativamente al quesito referendario: «Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di Repubblica?».
Su questo esito, tuttavia, pesano come macigni due dati di enorme rilievo. Il primo è che il referendum, fin dalla sua indizione ufficiale il 7 settembre, è stato dichiarato incostituzionale dal Tribunal Constitucional spagnolo, il supremo organo che veglia sugli equilibri istituzionali del paese. Il secondo è che i votanti che hanno effettivamente preso parte alla consultazione (circa 2,6 milioni di elettori) rappresentano soltanto il 43% circa dei catalani aventi diritto (circa 5,3 milioni). È vero che la repressione del governo centrale ha inibito e in parte direttamente impedito una piena partecipazione al voto, con la chiusura di centinaia di seggi, la distruzione di milioni di schede elettorali e intimidazioni spesso accompagnate dall’uso della forza. Da quel che è dato capire, tuttavia, è molto probabile – anche se ormai impossibile da verificare – che una parte assai consistente dei catalani non si sia recata alle urne perché contraria a qualsiasi ipotesi «indipendentista». Lo suggeriscono i dati di un altro referendum sull’indipendenza che i catalani avevano già celebrato nel 2014. Anche in quel caso infatti – ma si trattava allora di un referendum non vincolante – i «sì» avevano trionfato con l’80% dei consensi. A votare, però, era stato già allora meno del 36% degli aventi diritto.
Al di là delle ragioni e delle responsabilità delle due parti, il referendum del 1° ottobre 2017 ha generato una crisi di eccezionale gravità, che non investe soltanto la Catalogna (spaccata in due tra indipendentisti e unionisti) e la Spagna (che vede minacciata la propria secolare integrità territoriale), ma anche la stessa Unione europea (decisamente ostile a qualsiasi ipotesi indipendentista). Si tratta, più in generale, di una crisi che promette di ridare fiato alle molte irrisolte «questioni nazionali» e «micronazionali» che – dal Kurdistan iracheno alla Scozia, dal Belgio al Québec fino alla Lombardia e al Veneto – continuano in varia misura ad agitare il cosiddetto «mondo globale» con lo spettro, sempre difficilissimo da esorcizzare, della secessione.