Il sacrario di Redipuglia è il più grande cimitero militare italiano. Si trova in provincia di Gorizia, in Friuli-Venezia Giulia, dove si svolsero le terribili battaglie dell’Isonzo durante la Prima guerra mondiale. Vi sono sepolti 100.000 soldati italiani caduti in quel catastrofico conflitto. Fu progettato e costruito per volontà del governo fascista tra il 1935 e il 1938 e fu lo stesso Mussolini, il 18 settembre di quell’anno, a inaugurarlo, esaltando al tempo stesso l’«eroismo» dei morti e «la vittoria e la resurrezione della patria». Poco meno di un anno dopo, il 1° settembre 1939, doveva iniziare la Seconda guerra mondiale, il più colossale conflitto della Storia.
In questo suggestivo luogo della memoria il 13 settembre 2014 – a cent’anni dall’inizio della Prima guerra mondiale – risuonarono parole molto diverse. A pronunciarle, e poi a ripeterle in molti dei suoi successivi e inascoltati appelli alla pace, è stato Papa Francesco. «La guerra – disse – è una follia». Distrugge tutto, «anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano». Subito dopo, il Pontefice evocò la notissima condanna della «inutile strage» che Papa Benedetto XV aveva rivolto ai capi di Stato delle potenze belligeranti il 1° agosto 1917, in uno dei momenti più bui della Grande guerra. E la estese al tempo presente: «Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni».
Una «terza guerra mondiale a pezzi», dunque. È un’espressione che fa riflettere. E che fu pronunciata – è bene sottolinearlo – per la prima volta dieci anni fa.
Allora non mancavano certo buone ragioni per evocare un’immagine del genere. Il 2014 era stato un annus horribilis. Tra il febbraio e il marzo la Russia aveva occupato e annesso la Crimea, un pezzo di Ucraina. Il che aveva dato inizio a una guerra a bassa intensità nella regione del Donbass che doveva poi sfociare in guerra aperta otto anni più tardi. Le primavere arabe (2010-2011) si erano tramutate in un inferno di guerre in parte civili e in parte internazionali, che soprattutto in Libia e in Siria dovevano avere durature e drammatiche conseguenze. Gli Stati Uniti si erano ormai ritirati nel 2011 dall’Iraq (invaso e occupato dal 2003), ma il paese era in preda al caos, soprattutto per l’emergere, proprio nel giugno 2014, dell’Isis, lo Stato islamico, che estese i suoi tentacoli tra Iraq e Siria. Era poi ancora in corso la guerra in Afghanistan iniziata nel 2001, dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri gemelle e al Pentagono. Essa doveva concludersi soltanto nell’estate del 2021 con l’umiliante ritiro degli americani e delle forze della coalizione internazionale impegnate in quel paese e con il ritorno dei talebani al potere. Un altro focolaio di violenza si era acceso – sempre nel 2014 – nello Yemen, con la conquista della capitale Sana’a da parte degli Houthi, un gruppo sciita sostenuto dall’Iran. E molti altri conflitti erano in corso in Africa e altrove: dal Mali al Sudan e al Sud Sudan, dalla Repubblica centrafricana alla Nigeria e ai paesi vicini, dove agiva con violenza inaudita il gruppo terroristico Boko Haram. Di molti di questi eventi abbiamo dato conto in Storia di oggi.
Con la guerra in Ucraina a partire dal febbraio 2022 e poi con quella in Medio Oriente a partire dall’ottobre 2023 – insieme alle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina nell’Indo-Pacifico – l’espressione «Terza guerra mondiale a pezzi» ha tuttavia acquistato un’ulteriore e più intensa pregnanza. Non a caso, essa viene ormai abitualmente impiegata non soltanto dallo stesso Pontefice, ma anche da studiosi di relazioni internazionali, storici e analisti e ricorre di continuo sui giornali.
Si tratta in effetti di un’immagine molto suggestiva ed efficace, che sembra ben riflettere lo spettacolo dei molteplici e caotici conflitti che ci ha offerto l’anno appena conclusosi, il 2024. Possiamo dire, però, che è anche un’espressione corretta? In parte sì, ma in parte no.
Quante guerre mondiali?
In senso proprio le «guerre mondiali» sono state due: la prima nel 1914-1918 e la seconda nel 1939-1945. Esse sono state tali, e cioè «mondiali», per almeno sei ragioni. Anzitutto, perché in esse sono scese in campo tutte o quasi tutte le grandi potenze dell’epoca, schierate in gigantesche alleanze militari. In secondo luogo, perché hanno coinvolto direttamente, sia pure in misura diversa, un gran numero di paesi in tutto il mondo: oltre 30 la prima, più di 50 la seconda. In terzo luogo, perché sono state effettivamente combattute su molteplici teatri sparsi in svariate parti del pianeta, per terra, sui mari, nei cieli. In quarto luogo – e per molti aspetti soprattutto – perché sono state guerre esplicitamente dichiarate e combattute per il predominio mondiale, vale a dire con l’obiettivo e la volontà pienamente consapevole di stabilire un nuovo ordine internazionale. In quinto luogo, perché sono state concepite sulla base di veri e propri piani di guerra che, al di là della loro riuscita o del loro fallimento, prevedevano strategie belliche di dimensioni planetarie. Infine, perché sono state percepite da chi ha vissuto quegli anni drammatici come guerre di portata per l’appunto «mondiale».
Commisurate a questi due modelli, le altre grandi guerre che talora definiamo come «mondiali» sono state ben altra cosa. Anche nei loro esiti funesti in termini di vite umane e distruzioni.
La guerra che forse più di ogni altra si avvicina a quei modelli è stata la guerra dei Sette anni, che fu combattuta tra il 1756 e il 1763. Non a caso, essa è stata spesso descritta come la vera «prima guerra mondiale». Così, ad esempio, da uno che se ne intendeva: Winston Churchill. Ad essa, in effetti, parteciparono le principali grandi potenze dell’epoca: da un lato, la Gran Bretagna e la Prussia e, dall’altro, la Francia, l’impero asburgico, la Russia e in alcune fasi del conflitto anche la Svezia e la Spagna. Quella guerra, poi, fu combattuta sui più diversi teatri: in Europa, ma anche in Nord America e nei Caraibi, in India, in Africa occidentale e sugli Oceani. Essa ebbe infine effetti globali: in Europa consolidò la posizione di grande potenza della Prussia, nel resto del mondo segnò un trionfo per la Gran Bretagna, che divenne la principale potenza coloniale del pianeta, ai danni soprattutto della Francia e della Spagna. Un primato che essa doveva mantenere per oltre un secolo. Al di là della sua enorme estensione e della sua durata, la guerra dei Sette anni non fu tuttavia il frutto di un consapevole, deliberato e pianificato «assalto al potere mondiale», come lo furono le due guerre mondiali in senso proprio. Fu una delle tante guerre tra i grandi Stati europei che avevano afflitto il vecchio continente fin dal XVI secolo e che però, questa volta, si era estesa alle colonie producendo effetti globali. «Guerra mondiale» non è altro che un’etichetta retrospettiva.
Anche la «Guerra fredda» è stata più volte definita come la «terza» guerra mondiale, la quarta se consideriamo la guerra dei Sette anni. Essa contrappose in modo frontale e a tutti i livelli Stati Uniti e Unione Sovietica e i due «blocchi» di paesi che ad essi facevano riferimento. Durò quasi mezzo secolo, dal 1945 al 1991 – un po’ troppo per una vera guerra – e si concluse quasi all’improvviso, come si usa dire, con la «vittoria» dei primi e la «sconfitta» della seconda: un esito che doveva dischiudere la strada all’avvento di un nuovo ordine internazionale per qualche tempo a guida statunitense, un vero e proprio «nuovo ordine mondiale», come volle immaginarlo il presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush in un celebre discorso tenuto l’11 settembre (data da non dimenticare) del 1990. Anche in questo caso, però, «guerra mondiale» è poco più di una metafora, per quanto efficace. Quella guerra, infatti, fortunatamente non è mai stata combattuta sui campi di battaglia. È stata, in realtà, una «pace armata», anzi armatissima, nella quale le due superpotenze si sono dotate di enormi arsenali di armi di distruzioni di massa – la bomba atomica e poi la bomba all’idrogeno – tali da rendere paradossalmente impossibile una vera guerra, che si sarebbe tradotta in una sicura «distruzione reciproca» dei contendenti. In una guerra, cioè, senza vincitori né vinti. Più volte questo esito è stato sfiorato, ad esempio durante la guerra di Corea (1950-1953) e durante la cosiddetta crisi dei missili a Cuba (1962). Diverse «guerre calde» sono state poi combattute (ad esempio in Vietnam dagli Usa e in Afghanistan dall’Urss). Ma sempre senza uno scontro diretto tra le due «superpotenze», che avrebbe significato né più né meno che la fine del mondo e del genere umano.
Fuor di metafora, dunque, almeno fino al principio degli anni Novanta del secolo scorso, le «guerre mondiali» in senso proprio sono rimaste soltanto due.
Che dire, allora, della «terza guerra mondiale a pezzi»? Anche in questo caso abbiamo a che fare con una metafora? Se sì, è la metafora corretta? E qual è la situazione alla fine del 2024?
Come si contano pezzi della «terza guerra mondiale a pezzi»?
A un primo sguardo, i pezzi della «terza guerra mondiale a pezzi» sono davvero tanti e, come se non bastasse, risultano molto difficili da contare. Prima di poterlo fare, infatti, si deve anzitutto decidere che cosa fare entrare nel conteggio e che cosa no: che cosa è guerra e cosa non lo è.
Da qualche tempo a questa parte, in questo campo gli studiosi di regola parlano di «conflitti armati», più che di «guerra», al fine di includere sotto questa etichetta non soltanto la guerra vera e propria, vale a dire le tradizionali guerre tra Stati, che sono sicuramente diminuite rispetto al passato, ma anche le guerre civili, che sono invece sempre più numerose e spesso altrettanto se non più violente delle prime.
Anche così, però, le cose non sono semplici. Si provi a navigare ad esempio nell’autorevole portale rulac.org (Rule of Law in Armed Conflicts), gestito dall’Accademia di Ginevra di diritto internazionale umanitario e diritti umani. È uno strumento utile, che fornisce moltissime informazioni, con particolare attenzione ai risvolti giuridici dei conflitti contemporanei e dunque molto preciso, fin dove possibile, nell’individuazione delle diverse fattispecie della violenza organizzata. Esso suddivide i «conflitti armati» in tre diverse categorie. La prima, la più familiare, è quella dei «conflitti armati internazionali», che si svolgono cioè tra due o più Stati sovrani. La seconda, più scivolosa, è quella dei «conflitti armati non-internazionali». Si tratta di quei conflitti in cui, all’interno di uno Stato, si esercita una violenza «prolungata» (dunque non una semplice sparatoria tra gang rivali) tra autorità governative e gruppi armati organizzati oppure soltanto tra tali gruppi. Si tratta, insomma, di quelle che chiamiamo abitualmente «guerre civili». Infine, terza e ancor più scivolosa categoria, vi sono le «occupazioni militari», che si definiscono come tali quando si verificano contemporaneamente le tre seguenti condizioni: quando le forze armate di uno Stato straniero invadono un paese senza il consenso del governo locale, quando il governo locale non è in grado di esercitare la propria autorità a causa della presenza di tali forze armate e quando gli occupanti impongono la propria autorità sul territorio.
Dal punto di vista analitico, queste distinzioni sono molto importanti, anche perché implicano differenti forme di sanzione giuridica in base alle convenzioni internazionali vigenti. È chiaro però, anche ai curatori di rulac.org, che i conflitti armati contemporanei sfuggono a questa rigida classificazione. Molte guerre civili – si pensi ad esempio alla Siria o alla Libia dopo 2011 – tendono a internazionalizzarsi con l’intervento di Stati stranieri. Molti conflitti tra Stati, a loro volta, tendono a produrre o ad accompagnarsi a vere e proprie guerre civili e ad essere concretamente combattuti da milizie non statali, private, da uomini senza divisa e talora da truppe mercenarie. Vale lo stesso per le occupazioni militari, che talvolta non sono effettuate da eserciti statali, ma da gruppi privati e ben organizzati (si pensi ad esempio all’Isis), magari sostenuti da Stati stranieri che tuttavia non entrano direttamente nel conflitto, oppure da eserciti di uno Stato su territori che non hanno, in senso proprio, un loro Stato (si pensi ad esempio alla Palestina).
Un pasticcio, insomma. Ma è questa, sempre di più, la realtà dei conflitti contemporanei, che hanno visto cadere la distinzione – tipica delle guerre del passato – tra interno ed esterno, tra pubblico e privato e tra militari e civili.
I pezzi della «terza guerra mondiale a pezzi»
Fatte queste precisazioni, proviamo dunque a vedere sia pure sommariamente quanti e quali sono i pezzi della «terza guerra mondiale a pezzi». Il Global Peace Index 2024 (GPI 2024) offre preziose e inquietanti indicazioni in proposito (aggiornate al 2023 e ai primi 4-5 mesi del 2024). Esso ci dice anzitutto che sono attualmente in corso 56 conflitti armati, il numero più alto dalla Seconda guerra mondiale. Ci dice poi che questi conflitti sono diventati sempre più internazionali e che coinvolgono ben 92 paesi che agiscono al di fuori dei propri confini, il numero più alto da quando il GPI ha iniziato a pubblicare i suoi report (dal 2008). Ci dice ancora – ed è questo forse il dato più preoccupante – che il crescente numero di conflitti «minori» aumenta la probabilità di conflitti «maggiori» e più importanti in futuro. Accanto a moltissimi altri dati, il GPI stila anche la classifica dei paesi più pacifici al mondo: i primi cinque sono Islanda, Irlanda, Austria, Nuova Zelanda e Singapore. I più bellicosi – quelli cioè maggiormente coinvolti in guerre civili e internazionali – sono invece, nell’ordine, il Sudan, l’Ucraina, la Siria, la Repubblica democratica del Congo, il Burkina Faso. La Palestina viene subito dopo, al sesto posto.
Per uno sguardo complessivo e anche per molti ulteriori dettagli si possono consultare – per citarne solo alcuni – altri importanti indici e report: l’UCDP (Uppsala Conflict Data Report), l’ACLED (Armed Conflict Location & Event Data), il Global Conflict Tracker del Council on Foreign Relations (che si concentra sui conflitti che interessano o coinvolgono direttamente o indirettamente gli USA), il Konfliktbarometer dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research, i molteplici database del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), oltre al già citato rulac.org.
Da questi e altri strumenti emerge ovviamente che i due «pezzi grossi» della «terza guerra mondiale a pezzi» sono la guerra russo-ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022, e la guerra in Medio Oriente innescata dell’efferato attacco di Hamas contro civili e militari israeliani il 7 ottobre 2023. Ne abbiamo già parlato in altri articoli di Storia di oggi e ci torneremo tra poco con alcuni aggiornamenti.
Ci sono però anche diversi «pezzi piccoli» e meno piccoli: conflitti meno vistosi e conosciuti perché poco coperti dai media, ma non per questo meno estesi, violenti o drammatici. Fanno anch’essi parte della «terza guerra mondiale a pezzi», con serie implicazioni geopolitiche e uno spaventoso seguito di crisi umanitarie. Vale la pena di ricordarne qualcuno, che talora – ma non sempre – è stato evocato dallo stesso Pontefice.
I pezzi piccoli
Uno dei luoghi più instabili e conflittuali del pianeta è sicuramente il Corno d’Africa, dove si trovano l’Eritrea, Gibuti, la Somalia (che si affacciano in posizione strategica sul Mar Rosso e sul Golfo di Aden di fronte ad Arabia Saudita e Yemen) e l’Etiopia, che non ha invece sbocchi sul mare.
In Somalia la violenza è endemica. Vi opera infatti da tempo un potente gruppo terroristico jihadista affiliato ad al-Qaeda, Al-Shabaab, che occupa ampie aree del paese e colpisce sistematicamente – con attentati suicidi, bombardamenti e altre forme di violenza – le strutture militari e civili del governo, nonché la popolazione locale, anche nella stessa capitale, Mogadiscio.
In Etiopia, a sua volta, sono ancora forti le tensioni e gli scontri tra il governo, sostenuto anche da forze militari eritree, e il Fronte popolare di liberazione del Tigray. Esse erano culminate in un vero e proprio conflitto nel 2020 che si era poi formalmente concluso nel 2022 con la firma di un accordo di pace. Le due parti, tuttavia, non hanno del tutto deposto le armi e continuano tuttora a registrarsi pesanti scontri e gravissime violazioni dei diritti umani, in particolare da parte delle forze armate eritree, mai ritiratesi completamente dal paese. Il risultato è che nel Corno d’Africa è in atto una delle crisi umanitarie più terribili del mondo, aggravata dagli effetti del cambiamento climatico, che ha portato siccità, desertificazione e al tempo stesso devastanti inondazioni provocate da piogge intensissime e improvvise.
Confinante a nord-ovest con l’Eritrea e l’Etiopia e affacciato sempre sullo strategico Mar Rosso per quasi mille chilometri, vi è poi il Sudan, classificato dal GPI – lo abbiamo ricordato poco sopra – come il paese meno pacifico del mondo. Il suo territorio era già stato martoriato in passato da una lunga scia di scontri militari e civili e violenze di ogni genere. Attualmente è in preda a una gravissima guerra civile che è iniziata nella primavera del 2023 e vede contrapporsi l’esercito regolare sudanese (le SAF, Sudanese Armed Forces) e un potente gruppo paramilitare, le Rapid Support Forces (RSF) per il controllo militare e politico dello Stato e del territorio. Attacchi aerei, bombardamenti indiscriminati, violenze contro i civili hanno costretto oltre 5 milioni di persone a fuggire e a rifugiarsi nei paesi vicini, dando luogo a una terribile crisi umanitaria e a una più generale destabilizzazione dell’intera area.
Anche nella regione del Sahel – in particolare in Mali, Burkina Faso, Niger e Nigeria – sono in corso scontri e violenze di ampia scala. Ne sono protagonisti gruppi e miliziani jihadisti affiliati ad al-Qaeda e all’Isis. Tra essi si distingue per organizzazione ed efferatezza il già citato Boko Haram, che a fine ottobre 2024 – per ricordare solo l’ultima delle sue imprese – si è scontrato ai suoi confini con l’esercito regolare del Ciad, uccidendo una quarantina di soldati e provocando una vera e propria controffensiva dell’esercito di quel paese.
Violente guerre civili, ancora, sono in corso nella Repubblica democratica del Congo e nella Repubblica centrafricana, in Mozambico, in Uganda e nello Swaziland. Resta invece tesa, ma meno conflittuale, la situazione in Libia, che pure rimane divisa tra il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu, e quello di Tobruk, sostenuto dall’Esercito nazionale libico del generale Haftar.
Il bilancio di tutti questi focolai di guerra e di violenza è drammatico: si calcola che nel solo 2024 (i dati sono aggiornati a novembre) l’insieme di questi conflitti, associati ai disastri naturali, abbia causato circa 200.000 morti inducendo milioni e milioni di persone a fuggire in altri paesi e regioni limitrofe. Attualmente – la cifra è ovviamente approssimativa – i cosiddetti “sfollati interni” ammontano a più di 35 milioni di esseri umani. Ad essi si devono poi aggiungere i rifugiati, che cercano scampo all’estero.
Anche in diverse parti dell’Asia i conflitti armati dilagano. Dopo il ritorno dei talebani al potere nell’agosto del 2021, l’Afghanistan sta di nuovo precipitando in una condizione di grave instabilità: da un lato, per le azioni terroristiche e di guerriglia condotte contro il governo dall’Isis del Khorasan e da altre fazioni ribelli; da un altro lato, per le crescenti tensioni con il Pakistan, che si sono tradotte di recente – a dicembre 2024 – in ripetuti scontri sul confine, condotti anche con attacchi aerei.
Se sembrano stemperarsi le tensioni tra Kirghizistan e Tagikistan dopo i violenti scontri del 2022 e quelle tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh dopo la resa degli armeni nel settembre 2023, rimangono invece ancora acuti i contrasti tra India e Pakistan – due potenze nucleari – per la regione contesa del Kashmir, quelli tra la Corea del Nord e la Corea del Sud e quelli tra la Cina e diversi paesi del Sud-Est asiatico (Taiwan, Filippine, Vietnam e Malesia) nel Mar Cinese meridionale. Dopo il colpo di stato militare del febbraio 2021, il Myanmar è ancora intrappolato in una feroce guerra civile tra la giunta militare e vari gruppi di resistenza, che si è particolarmente distinta per crimini di guerra e atrocità contro i civili, in particolare contro la minoranza dei Rohingya, costretta a un continuo esodo forzato dal paese.
A questo quadro sommario e sicuramente incompleto dei «pezzi piccoli» della «terza guerra mondiale a pezzi» si deve aggiungere ancora quell’insieme di «conflitti armati non internazionali» (secondo lo schema di rulac.org) che in ampia parte dell’America latina contrappone i governi alle grandi organizzazioni criminali e ai signori del narcotraffico. In Messico in particolare – ma anche in Colombia, Ecuador, Honduras, El Salvador e Perù – questo «conflitto» provoca ogni anno, complessivamente, migliaia e migliaia di morti.
Il primo pezzo grosso: l’Ucraina
Come già detto, i due pezzi grossi della «terza guerra mondiale a pezzi» restano però l’Ucraina e il Medio Oriente, a cui si deve ancora aggiungere la crescente e pericolosissima tensione tra Stati Uniti e Cina nella regione dell’Indo-Pacifico, che ha il suo punto più caldo nella questione di Taiwan.
Della guerra russo-ucraina abbiamo già parlato in un precedente articolo, scritto però a ridosso del suo scoppio due anni fa. È dunque necessario qualche aggiornamento.
La guerra è ancora in corso, senza chiare prospettive di soluzione, anche se qualcosa potrebbe cambiare, dopo il 20 gennaio del 2025, con l’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. La stanchezza di entrambe le parti per un conflitto che non ha dato ad oggi risultati travolgenti è però evidente. Questi, in estrema sintesi, i suoi principali sviluppi sul terreno.
Come abbiamo già visto in precedenza, tutto è iniziato il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa del territorio ucraino lungo le tre direttrici di Kiev (dalla Bielorussia), del Donbass (dalla Russia) e del Mar Nero (dalla Crimea, annessa alla Russia nel 2014). L’offensiva russa è durata però soltanto qualche settimana, perché ha incontrato la tenace resistenza dell’esercito ucraino (sostenuto con aiuti sempre più massicci dagli Stati Uniti e da vari paesi occidentali), che è riuscito a impedire la presa di Kiev. A quel punto – eravamo arrivati qui – i russi hanno rinunciato a puntare sulla capitale e hanno concentrato le proprie forze nel Donbass e nel sud del paese. Da quel momento la guerra – costellata da continue minacce di un’estensione su ampia scala del conflitto e dell’impiego di armi nucleari (non solo in Ucraina) e da più o meno efficaci sanzioni inflitte alla Russia da Usa e Ue – è stata un drammatico susseguirsi di offensive e controffensive, di situazioni di stallo sul terreno, di bombardamenti su infrastrutture strategiche e sulle città, di violenze orribili sui civili, con un altissimo costo umano.
I passaggi più importanti, ma mai decisivi, della guerra sono stati, nel 2022, la conquista russa della città di Mariupol, dopo un terribile e violentissimo assedio che si è concentrato, poco prima della resa degli ucraini, nello stabilimento siderurgico di Azovstal (maggio 2022); l’annessione russa delle regioni di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia, a seguito di un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale (settembre 2022); e le due controffensive ucraine che hanno portato alla liberazione di ampia parte della regione di Kharkiv e della città di Kherson (settembre-novembre 2022). Nel secondo anno, il 2023, il conflitto ha assunto i caratteri tipici della guerra di logoramento, facendosi particolarmente feroce nella città di Bakhmut, dove si è combattuto a lungo casa per casa sotto bombardamenti incessanti. La città – un cumulo di macerie – è stata infine conquistata dai russi nel maggio 2023, grazie ai servizi dei mercenari della Wagner, ampiamente impiegati nel conflitto. Contemporaneamente la Russia aveva preso a bombardare sistematicamente le infrastrutture energetiche ucraine, causando gravissimi disagi alla popolazione. In questo contesto, gli Stati Uniti e i paesi europei hanno incrementato i propri aiuti al paese invaso, fornendo sistemi d’arma più moderni per la difesa aerea, mezzi blindati, droni e missili a lungo raggio. Ebbe così inizio, nel giugno del 2023, una nuova controffensiva ucraina verso est e verso sud, che non produsse però risultati decisivi di fronte alla resistenza dei russi, protetti da campi minati e trincee. Anche il bombardamento del ponte di Kerch, che unisce la Crimea e la Russia, per quanto spettacolare, non impresse alcuna svolta al conflitto. E così il bombardamento di postazioni russe nelle retrovie, compresa la regione russa di Belgorod, con missili a più lunga gittata. In questa situazione di stallo, il 2023 si è chiuso con la promessa da parte di Usa ed Europa di nuovi aiuti militari all’Ucraina e l’annuncio di un’ulteriore mobilitazione militare russa per le operazioni sul fronte. Dall’inizio del 2024 i russi, a cui si sono poi uniti alcuni contingenti militari della Corea del Nord, hanno fatto significativi progressi nel Donbass, conquistando diverse posizioni strategiche. L’Ucraina, dal canto suo, ha avviato in agosto una controffensiva in territorio russo, nella regione di Kursk, che ha costretto i russi a dividere le proprie truppe. La sua posizione nel conflitto è diventata però sempre più critica, suscitando le preoccupazioni dei vertici militari ucraini e delle stesse potenze occidentali. L’attacco missilistico russo su Kharkiv del 25 dicembre 2024 – condannato come un vero e proprio atto di terrorismo contro i civili – ha reso queste preoccupazioni sempre più acute. Ma la guerra è ancora in corso e i suoi esiti sono tuttora molto incerti. Segnali di una volontà di pace sono stati espressi da entrambe le parti, ma a condizioni per ora non conciliabili.
Due dati sono certi. Il primo è l’elevatissimo costo umano della guerra. Le stime sono ovviamente assai imprecise, ma si calcola che tra i 100.000 e i 200.000 russi e ucraini, tra militari e civili, siano morti nei combattimenti (ma potrebbero essere molti di più) e che vi siano diverse centinaia di migliaia di feriti, 4 milioni di sfollati interni (fuggiti dalle proprie case ma rimasti in Ucraina) e oltre 6 milioni di rifugiati all’estero. Particolarmente brutali e atroci le violenze russe sui civili. Un esempio e al tempo stesso un simbolo è stata la strage di Bucha, una città a poche decine di chilometri da Kiev occupata all’inizio della guerra. Qui i militari russi, al principio del 2022, prima di arretrare nel Donbass, hanno commesso crimini di guerra gravissimi uccidendo a freddo, torturando e stuprando migliaia di persone. Sono centinaia i morti civili accertati in quella strage, molti trovati in fosse comuni con le mani legate dietro la schiena. Eventi del genere si sono più volte ripetuti durante le ostilità.
Il secondo dato certo, anch’esso molto preoccupante, è che la guerra sta destabilizzando, in diversi modi, la sicurezza di un’ampia fascia di paesi dell’Europa centro-orientale. In particolare la Georgia – dove sono situate le due enclave russe dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud già da tempo contese – è precipitata nel caos dopo le contestate elezioni parlamentari che hanno dato la maggioranza a «Sogno georgiano». Il governo che si è insediato a fine novembre ha annunciato di voler sospendere i negoziati per l’adesione all’Unione europea, scatenando proteste di massa a Tbilisi. Il 14 dicembre successivo l’elezione alla presidenza della Repubblica dell’ultraconservatore Mikheil Kavelashvili, considerato vicino agli interessi russi, ha acuito ulteriormente le tensioni. Grave la situazione anche in Moldova, che da tempo si confronta con la minaccia dei separatisti filorussi della Transnistria. A ottobre un referendum sull’adesione all’Ue è stato vinto, ma di poco, dagli europeisti. Anche le elezioni presidenziali di novembre sono state vinte con una maggioranza risicata dalla candidata pro-Ue. Le pressioni russe sono state in entrambi i casi molto forti e sono infine culminate nell’annuncio da parte di Mosca dell’interruzione delle forniture di gas al paese (30 dicembre). Un disastro annunciato.
Il secondo pezzo grosso: il Medio Oriente
Anche il conflitto scoppiato in Palestina dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 non si è affatto fermato. Esso si è anzi esteso all’intero Medio Oriente. Nel precedente articolo dedicato a questo tema, avevamo già potuto fissare i punti salienti di questa regionalizzazione della guerra oltre la Striscia di Gaza e la Cisgiordania: soprattutto in Libano contro Hezbollah e nello Yemen contro gli Houthi. Avevamo ricordato anche il breve scontro diretto tra Israele e l’Iran (aprile 2024), con il bombardamento reciproco di postazioni militari nei rispettivi territori a seguito dell’omicidio mirato compiuto da Israele con un raid aereo contro l’ambasciata iraniana di Damasco (in Siria), in cui morirono alcuni importanti esponenti delle forze militari iraniane e di Hezbollah.
Da allora, la guerra è continuata senza sosta fino a oggi, con qualche fragile tregua che è durata molto poco e in un susseguirsi di stragi e violenze, soprattutto ai danni dei civili, molto spesso usati come scudi umani da Hamas e Hezbollah a Gaza e in Libano. Due eventi, in particolare, hanno surriscaldato il conflitto. Il primo è stato, il 18 settembre 2024, la spettacolare esplosione di centinaia di cercapersone e walkie-talkie nella roccaforte di Hezbollah a Beirut. L’attentato, preparato per mesi dall’intelligence israeliana, ha provocato decine di morti e centinaia di feriti e la rabbia dell’Iran. Il secondo è stato, pochi giorni dopo, il 27 settembre, l’assassinio mirato di Hassan Nasrallah, uno dei leader di Hezbollah, in un attacco aereo israeliano a Beirut. La risposta dell’Iran è stata quasi immediata e si è concretizzata il 1° ottobre in un nuovo attacco contro Israele con centinaia di missili balistici. Ad essa gli israeliani hanno a loro volta risposto il 26 ottobre con una serie di raid aerei in Iran, che hanno colpito siti militari e infrastrutture strategiche senza provocare, almeno nell’immediato, ulteriori reazioni iraniane. Pochi giorni dopo, infatti, a migliaia di chilometri di distanza, Donald Trump veniva eletto presidente degli Stati Uniti (5 novembre), suscitando molti interrogativi sull’atteggiamento che gli Usa terranno nella regione, in particolare nei confronti dell’Iran, una volta che egli si sarà effettivamente insediato alla presidenza (ciò che avverrà il 20 gennaio 2025). Questo, però, non ha impedito all’Iran di lanciare un mese dopo, il 5 dicembre, un missile ipersonico contro il territorio israeliano: un tipo di missile difficile da intercettare con i sistemi di difesa tradizionali a disposizione di Israele e che ha causato – pare – danni significativi ad alcune infrastrutture strategiche del paese. Mentre avveniva tutto questo, Israele ha continuato sino ad oggi le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza e in Libano, facendo ancora una volta diverse vittime civili e arrivando a colpire più volte, tra ottobre e novembre, le postazioni di Unifil: le forze di interposizione create dall’Onu nel 1978 e incaricate di garantire la sicurezza nel sud del Libano. Forze di cui fa parte – va aggiunto – un consistente contingente di militari italiani. Gli Houthi dello Yemen, dal canto loro, hanno continuato a colpire il territorio israeliano con droni e missili. In più, a complicare ulteriormente la situazione geopolitica della regione, l’8 dicembre è caduto in Siria il regime di Bashar-al Assad, un altro punto di riferimento dell’Iran nell’area. Gli è subentrato un nuovo governo guidato dai ribelli di un gruppo islamista sunnita (e dunque anti-iraniano) che non ha ancora chiarito fino in fondo le sue intenzioni nelle varie arie di crisi del Medio Oriente e nella stessa Siria.
Si tratta dunque, ancora una volta, di un conflitto irrisolto e anzi aggravatosi nel corso del tempo, che ha fatto decine di migliaia vittime e provocato una crisi umanitaria di enormi proporzioni. Una vera e propria strage, insomma, che ha spinto la Corte Penale Internazionale a emettere, il 21 novembre 2024, tre mandati di arresto per crimini di guerra contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant e il capo del braccio armato di Hamas Mohammed Deif, con una equiparazione tra i vertici di uno Stato e i capi di un’organizzazione terroristica che ha aperto un mare di polemiche.
Il terzo pezzo grosso: l’Indo-Pacifico tra Cina e Stati Uniti. Taiwan
Il terzo pezzo grosso della «terza guerra mondiale a pezzi» non è ancora deflagrato, ma è potenzialmente il più pericoloso. È il contrasto sempre più intenso che contrappone Cina e Usa – le due vere grandi superpotenze del mondo attuale – nella regione dell’Indo-Pacifico. A farlo esplodere potrebbe essere la questione di Taiwan, su cui la Cina rivendica da tempo la propria sovranità.
Taiwan riveste un’importanza strategica per svariate ragioni, sia per la Cina sia per gli Stati Uniti. Si trova su una delle rotte commerciali più importanti del mondo. È sede di un’avanzatissima produzione di semiconduttori, necessari a far funzionare dispositivi elettronici di ogni tipo, dagli smartphone ai computer fino alle armi tecnologicamente più sofisticate. Inoltre, è una delle poche democrazie consolidate nell’Asia orientale.
Una sua eventuale invasione da parte della Cina – minacciata più volte con dichiarazioni roboanti e con ripetute esercitazioni militare intorno all’isola – potrebbe dunque scatenare un conflitto aperto tra Cina e Stati Uniti, che da decenni sostengono il governo di Taipei in ogni modo, proprio per scongiurare questa possibilità. Un conflitto di questo genere potrebbe insomma scatenare un conflitto di scala ben più che regionale. In questo caso, la «terza guerra mondiale a pezzi» potrebbe degenerare in una terza guerra mondiale tutta intera.
La vera «terza guerra mondiale»
In effetti, a ben vedere, il convitato di pietra di tutti i pezzi – piccoli e grossi – della terza guerra mondiale a pezzi è proprio la Cina. Le sue relazioni con la Russia si sono significativamente rafforzate, soprattutto dopo la Dichiarazione di «amicizia senza limiti» che i due paesi hanno stretto nel febbraio 2022, poco prima che iniziasse la guerra russo-ucraina. Anche le sue relazioni con l’Iran – con cui la Russia ha stretti rapporti – sono ben salde e sono state rafforzate da un accordo di cooperazione venticinquennale – economico, politico e militare – siglato nel marzo 2021. Ciò significa che anche la Cina ha a che fare, sia pure indirettamente, con le due maggiori aree di crisi del mondo, l’Ucraina e il Medio Oriente, dove gli Stati Uniti esercitano un ruolo indiretto, ma molto importante. La sua presenza in Africa (dove anche la Russia è peraltro direttamente coinvolta in alcuni dei conflitti che abbiamo sopra citato) è andata poi crescendo esponenzialmente, in parte attraverso investimenti infrastrutturali, in parte sul piano del commercio e della cooperazione sanitaria. Con la Russia e l’Iran (e la Corea del Nord), poi, la Cina condivide l’obiettivo esplicito di ridimensionare la leadership mondiale degli Stati Uniti e una profonda avversione nei confronti del modello occidentale della democrazia liberale, considerato ormai obsoleto.
Tutto questo significa che molti dei pezzi della «terza guerra mondiale a pezzi» potrebbero non essere semplicemente frammenti alla deriva sulla superficie del pianeta, conflitti sparsi e isolati. Se dovessero sfuggire al controllo, magari a seguito di qualche incidente – di una Sarajevo del XXI secolo – potrebbero presto cessare di essere i «pezzi» di una presunta guerra mondiale a pezzi, che ovviamente non esiste, e trasformarsi invece nel più immediato antefatto di una vera e propria terza guerra mondiale. Com’è già accaduto due volte ai «sonnambuli» del passato: la prima nel 1914 e la seconda nel 1939.